Cristiani e musulmani, quale dialogo?

 “CRISTIANI E MUSULMANI: QUALE DIALOGO?”

Più che auspicabile, necessaria. È la costruzione di forme concrete e quotidiane di dialogo con chi non condivide la nostra stessa religione. E in particolare con i credenti musulmani. Questa è la prima conclusione, ma al contempo il punto di partenza da cui si è avviata la riflessione sviluppata a Imola durante il Seminario “Cristiani e Musulmani: quale dialogo?”, organizzato dalla Delegazione Regionale Caritas Emilia Romagna in collaborazione con i Centri Missionari Diocesani regionali e con la Fondazione Migrantes. Allo scopo di approfondire lo stato dell’arte e le prospettive per una significativa e fruttuosa relazione tra cristiani e musulmani, specialmente in questo momento in cui temi come immigrazione e terrorismo sfidano a trovare soluzioni creative, sono stati invitati alcuni esperti in grado di aiutare le comunità cristiane ad attivare concrete piste di impegno.

Video: Intervento di Mons. Douglas Regattieri

Come sottolineato dal moderatore, Francesco Zanotti, presidente della Federazione Italiana di Stampa Cattolica, concentrarci sul tema del dialogo consente di non arenarsi, di non intrappolare la speranza, perché l’acqua che resta ferma, imputridisce. Pertanto al primo relatore, il professore e teologo, Brunetto Salvarani è stato chiesto di offrire un quadro analitico del dialogo tra le religioni in Italia. Ne risulta una situazione in movimento (“un cantiere effervescente”) in cui manca ancora un progetto complessivo, un modello sia a livello ecclesiale, che a livello interculturale. La multireligiosità in Italia è ancora percepita come un problema da affrontare, piuttosto che un’occasione positiva.

Le frammentazioni poi presenti nelle realtà religiose presenti in Italia (musulmani in primis) non aiutano lo Stato ad individuare interlocutori univoci e rappresentativi con cui impostare intese bilaterali. Necessario quindi costruire ponti, relazioni in itinere e a livelli diversi, prediligendo un dialogo sociale, nella quotidianità, a discapito di un dialogo a livello teologico che spesso trova impreparati o poco effettivamente interessati entrambi gli interlocutori. Alcune buone prassi esistono già e negli anni hanno dato frutto: efficace si è dimostrata la narrazione reciproca attraverso incontri dialoganti su temi del quotidiano (il lavoro, la donna, i figli, ecc), a cui dedicare tempi e spazi consoni (quindi attenzione) e in cui riconoscersi come uomo e donna, come vicini, come amici e non in prima battuta come diversi e distanti. Cogliere poi occasioni particolari (cornici leggere e già impostate, cioè che non richiedono un ripensamento complesso o una progettazione impegnativa), come la Giornata per il dialogo cristiano-islamico (il 27 ottobre), per attivare azioni anche piccole condivise: al carcere di Dozza in quell’occasione detenuti cristiani e musulmani leggono insieme passi della Bibbia o del Corano. Infine pensare a feste condivise coinvolgendo anche le istituzioni (a Novellara addirittura un Festival è stato organizzato) per sottolineare il valore civile del dialogo.

Infine il prof. Salvarani ha lasciato una sorta di decalogo per un buon dialogo:

  1. Il dialogo si fa tra le persone (non tra religioni, tra metafisiche o altro)
  2. Il dialogo si fa partendo da cose concrete
  3. Il dialogo si fa partendo dalle nostre identità (intese come processi culturali aperti alla relazione e alla contaminazione)
  4. Il dialogo si fa partendo dalle cose comuni (e che accomunano)
  5. Il dialogo si fa senza nascondere le cose che ci rendono diversi (differenze da valorizzare e non nascondere).
  6. Il dialogo si fa partendo da qualcuno che racconta (e i vissuti richiedono tempi e spazi ad hoc)
  7. Il dialogo si fa se qualcuno ascolta (l’importanza di educare ed educarci all’ascolto)
  8. Il dialogo non è fatto solo di parole, ma anche di gesti, abbracci, silenzi, scambi, attenzioni
  9. Il dialogo è un fenomeno glocale con due dimensioni importanti da non sottovalutare
  10. Il dialogo mentre si fa arricchisce entrambi, fa cambiare e crescere

In questo momento è necessario non chiudersi su posizioni identitarie, ma aprirsi con positiva pro positività. Forse è necessario avere spazi comuni di silenzio, di meditazione (come nella parrocchia di Pinerolo dove vi è una stanza del silenzio aperta a tutti). Altra questione centrale è la formazione, soprattutto in risposta alla crescente islamizzazione del disagio: sarebbero necessari laboratori continui di formazione permanente in ogni diocesi. E infine è necessario che i vescovi riflettano su un nuovo modello per l’ora di religione: quello facoltativo e confessionale del concordato del 1984 non funziona più.

Per approfondire l’intervento, è possibile vedere l’articolo di Brunetto Salvarani apparso sulla rivista Paradoxa n. 1 del 2016: http://www.novaspes.org/paradoxa/detArticolo.asp?id=573

Brunetto Salvarani, nato a Carpi nel 1956, è teologo e saggista. Ha diretto il mensile interculturale CEM Mondialità e il periodico del dialogo cristiano-ebraico QOL. È docente di Missiologia e Teologia del dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna di Bologna. È autore di numerosi libri e direttore di diverse collane Emi. È stato a lungo responsabile del Centro Studi Religiosi della Fondazione San Carlo di Modena, assessore alla Cultura del Comune di Carpi e direttore della Fondazione Fossoli. È presidente dell’associazione italiana Amici di Neve Shalom – Wāħat as-Salām.

Video: Intervento di Brunetto Salvarani

Il teologo Mons. Andrea Pacini, dell’arcidiocesi di Torino, ha accennato alla necessità di vincere pregiudizio e incomprensioni, ma anche di farci compagni di strada di coloro che hanno paura della diversità anche all’interno della Chiesa. Le migrazioni dai tempi del Concilio, negli anni ’60 hanno cambiato volto: allora chi emigrava pensava ad un ritorno in patria dopo aver fatto fortuna, ora la situazione è più complessa e plurale. Quindi è urgente conoscere il più possibile il proprio interlocutore.

Un documento di riferimento per la Chiesa sul tema del dialogo è “Dialogo e Annuncio” del 1995 che evidenzia quattro possibili tipologie di dialogo:

  • Il dialogo teologico, che, se impostato sui dogmi, porterebbe inevitabilmente ad arrivare a contrapporre concetti irriducibili. Quindi dovrebbe avere una caratterizzazione culturale, focalizzandosi su temi come il concetto di uomo, dignità, libertà, giustizia, diritti, ecc.
  • Il dialogo della cooperazione
  • Il dialogo della vita
  • Il dialogo della spiritualità

La Chiesa ha privilegiato il dialogo della vita, cercando di elaborare percorsi comuni, che possono trovare compimento in spazi ecclesiali che divengono luoghi di dialogo, se usati come tali. L’Ufficio Nazionale per l?ecumenismo e il dialogo interreligioso ha elaborato alcune indicazioni e approfondimenti sul tema:  http://www.chiesacattolica.it/ecumenismo/siti_di_uffici_e_servizi/ufficio_nazionale_per_l_ecumenismo_e_il_dialogo_interreligioso/00071150_Schede_per_una_conoscenza_piu_approfondita_dell_Islam.html Il dialogo della cooperazione è certamente più complesso. Una possibilità concreta di avviarlo potrebbe essere la collaborazione tra Chiesa e Moschea/Centro Culturale Islamico per una comune iniziativa caritativa. Altra iniziativa potrebbe avere come destinatarie le donne musulmane come nel quartiere di porta Palazzo a Torino dove le suore salesiane lavorano molto con esse. Necessario nel dialogo con l’interlocutore musulmano è mantenere un certo relativismo, avere molta pazienza e accentuare l’attenzione all’altro. Non desistere. Poi si dovrebbe cercare la convergenza e il consenso sui valori umani fondamentali. A livello civile quando si parla di un progetto per l’integrazione di fatto non si vuole un multiculturalismo spinto, né un assimilazionismo, ma un progetto multiculturale, in grado di essere anche un limite alle differenze estreme delle culture, tenendo fermi diritti e valori fondamentali.  Ma a livello ecclesiale, quale progetto c’è a livello di relazione con l’Islam? Cosa fare nelle scuole paritarie con le presenze musulmane? Cosa fare con l’ora di religione? E per quanto riguarda la presenza delle moschee (accolte sempre con grandi paure e pandemoni)? È necessario un dialogo interno nella Chiesa su questo tema.

Per approfondire l’intervento di Don Andrea Pacini:

http://www.chiesacattolica.it/ecumenismo/siti_di_uffici_e_servizi/ufficio_nazionale_per_l_ecumenismo_e_il_dialogo_interreligioso/00045987_Dialogo_e_annuncio._Un_documento_sempre_attuale.html

Don Andrea Pacini, nato nel 1963, è sacerdote dell’Arcidiocesi di Torino. È docente di Introduzione alla Teologia e di Teologia orientale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e di Cristologia all’Istituto Internazionale San Giovanni Bosco di Torino. Dal 2005 è consultore della Commissione per i rapporti religiosi con i musulmani presso il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Collabora con la Fondazione Oasis (presieduta dal Card. Scola e finalizzata a promuovere la reciproca conoscenza e l’incontro tra il mondo occidentale e quello a maggioranza musulmana) e con la Fondazione Agnelli.

Video: Intervento di Don Andrea Pacini

Il sociologo Adel Jabbar, iracheno d’origine e da tempo residente a Trento, parte dallo stato dell’arte in cui si inserisce il tema del dialogo, una situazione globale, che citando il concetto di “terza guerra mondiale a pezzi” di Papa Francesco, vede un mondo squilibrato, dove pullulano discriminazioni, guerre. Una situazione, un contesto violento, che accomuna cristiani e musulmani. Il contesto geopolitico va considerato: il terrorismo va contestualizzato e non interpretato superficialmente come un conflitto tra due entità (religiose, culturali o geografiche). Il colonialismo e la I guerra mondiale hanno generato un modello alchimistico della durata di 100 anni fatto di stati deboli e fragili, con élites feroci e dispotiche con uno scarso consenso interno (es. la famiglia hashemita in Giordania o quella wahabita in Arabia Saudita, prescelte al tempo di Lawrence d’Arabia). Questo modello ha inciso anche sulla componente religiosa impoverendo notevolmente il pensiero e la cultura, divenuta scarna, catechistica, propedeutica: il dispotismo degli anni ’60 ha risucchiato le componenti vitali e culturali della società.

Un pensiero arido e subalterno al volere di chi comanda, anche la religione si piega alla politica divenendone subalterna. E dagli anni ’60 fino al 2011 (Primavere Arabe) regna nel mondo islamico la paura. Una lettura storica è necessaria anche quando si considera la situazione in Iraq, il paese dell’esperto, che dal 2003 è passato continuamente nelle mani di tanto gruppi religiosi, che storicamente vanno distinti con attenzione. Poi oltre all’inquadramento geopolitico e a quello storico, bisogna osservare il quadro sociologico: i musulmani arrivati in occidente per primi erano lavoratori e lavoratrici, di essi vanno considerata le fatiche. Una persona ha una funzione, una presenza, ma ciò non basta: deve avere anche relazioni. Anche se tante storie di migranti sono collocate in una dimensione di provvisorietà, con relazioni più difficili da creare (l’emigrazione per criteri economici è più orientata a una dimensione materiale). La debolezza socio-economica del migrante ci mette innanzi una figura fragile che spesso si rifugia nel passato (difficile produrre relazioni affettive nel luogo dell’esilio).

Quando si parla di dialogo occorre tenere conto che molti stranieri non hanno strumenti di lettura del contesto né per rispondere ad un’interlocuzione costruttiva. E poi c’è molta inadeguatezza ad affrontare il tema, quando si parla di Islam si chiama l’imam, dando inconsapevolmente un ruolo che richiede competenze, conoscenze proprie e altrui che vengono date per scontate. Poi va considerata la visione mistica, sacra e dottrinale di ciò che è accaduto nel passato. Infine se prendiamo il migrante nel contesto di società in cui è inserito, in preda a crisi politica, economica, sociale in cui mancano luoghi di condivisione, partecipazione e cooperazione, si prefigura una situazione sfilacciata, frammentata che non è detto che sia superabile dalle seconde generazioni. Poi molti giovani migranti non sono abituati a disciplina, regole, ordine, perché a causa dell’urbanizzazione, dalle campagne sono finiti in molti casi in quartieri disagiati, periferie di caotiche metropoli. Dal canto loro i musulmani devono porsi diverse domande, avviare un dialogo interno, anch’essi sono vittime dei gruppi e gruppuscoli terroristici, Devono iniziare ad estrometterli, a confutarne le tesi e pretese con forza e determinazione. E questo non perché sono conniventi, ma perché ancora non si sono liberati dalla cultura della paura. E la cultura è una cattiva consigliera, produce ignoranza che per contro è spesso coraggiosa, si sparano sentenze, accuse superficiali. La paura deve essere trasformata in dubbio, che apre alla ricerca della verità.

Per approfondire l’intervento di Adel Jabbar:

http://www.forumpace.it/la-vera-sfida-e-convivere-intervista-a-adel-jabbar/

http://www.interculture-italia.it/index.php?option=com_content&task=view&id=55&Itemid=34

Adel Jabbar, nato a Baghdad (Iraq), vive a Trento, è sociologo dei processi migratori e relazioni transculturali e saggista. Ha insegnato sociologia delle culture e delle migrazioni all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Comunicazione interculturale all’università di Torino. Libero docente e collaboratore di istituzioni accademiche e organismi di ricerca e formazione. Collaboratore del Centro Teologico di Torino, dell’Istituto di Scienze Religiose di Bolzano e del Forum Provinciale per la Pace di Trento.

Intervento di Adel Jabbar


Nel pomeriggio poi sono stati presentati alcune esperienze di dialogo nella quotidianità, in particolare in tre ambiti, il carcere, le iniziative con i giovani e la salute. Sono intervenuti:

Berardino Cocchianella (direttore dell’Istituzione per l’inclusione sociale e comunitaria di Bologna) e Abdessamad Bannaq sono i protagonisti del film documentario DUSTUR/Costituzione di Marco Santarelli presentato al Torino Film Festival 2015 (https://www.youtube.com/watch?v=XdwJv0knRow il trailer). È il racconto di una serie di lezioni presso il carcere di Dozza (Bologna) sulla Costituzione italiana, seguite principalmente da detenuti musulmani.

Video: Testimonianza DUSTUR

L’associazione “Abramo e pace” (http://www.abramoepace.com/) è nata nell’ottobre 2014, per raccogliere e rilanciare il progetto – promosso dalla Provincia di Bologna nell’ambito delle politiche di pace – rivolto a studenti delle scuole superiori, ebrei, cristiani e musulmani, che aveva avuto come culmine la permanenza di alcuni giorni (23-27 febbraio 2014) a Gerusalemme, città dell’incontro, dove convivono le tre religioni che si riconoscono in Abramo, perché ciascuna ha in Gerusalemme radici più resistenti delle tensioni secolari. Tra i fondatori dell’associazione esponenti delle tre religioni monoteistiche. L’associazione è presieduta dalla professoressa Beatrice Draghetti, già presidente della Provincia di Bologna dal 2004 al 2014, dirigente dell’Azione Cattolica e responsabile nazionale dell’AC Ragazzi. Insegnante di religione e lettere.

Video: Testimonianza Abramo e pace

Don Francesco Scimè, sacerdote dell’arcidiocesi di Bologna, è parroco a Caselle, Ronchi-Bolognina, Sammartini (Crevalcore), appartiene alle Famiglie della Visitazione, comunità ispirata all’esperienza e alla regola di don Giuseppe Dossetti. È delegato per la Pastorale della Salute e direttore dell’Ufficio di Pastorale Sanitaria dell’arcidiocesi bolognese.

Video: Testimonianza Don Francesco Scimè

Le riflessioni sono di Francesco Millione.

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